constant e il campo nomadi di alba. da “domus” ott. 2005

Note sull’urbanismo unitario di Francesco Careri (osservatorio nomade) 

Il primo agosto scorso è morto Constant. Lascia al mondo dell’arte e dell’architettura una molteplice e contraddittoria eredità: c’è chi di New Babylon “ha copiato solo le forme senza prenderne i contenuti”, come lui stesso mi aveva detto a proposito di tante architetture opulente che offrono un’immagine ludica e colorata al neocapitalismo trionfante. C’è chi ha continuato la strada utopica e visionaria del nomadismo antiarchitettonico – forse l’aspetto più affascinante di New Babylon – e penso alla Walking City di Archigram, alle griglie energetiche di Superstudio fino alle recenti e a volte ridicole versioni del neo-pop digitale. E, ancora, c’è chi costruisce reti informatiche, realizzando New Babylon in scala digitale; chi ne sperimenta la vita liberata in occupazioni, autogestioni e nuove comunità; chi ripropone l’approccio creativo e interdisciplinare dell’urbanismo unitario cercandovi risposte per l’attuale città multiculturale. Questa ultima strada, che era alle fondamenta di New Babylon, offre oggi possibilità impensabili all’epoca dei situazionisti, forse troppo impegnati a costruirne la teoria e lo spazio, troppo poco alla ricerca di un luogo, di un terreno concreto in cui mettersi in campo.Proviamo a ripartire da Alba cinquanta anni dopo, da quella comunità di sinti piemontesi ai quali Pinot Gallizio aveva donato un terreno e Constant un progetto: l’idea di non imporre ai nomadi un’urbanità sedentaria, ma al contrario di prenderne a modello lo stile di vita per proporre al mondo intero un diverso modo di abitare lo spazio. La storia è andata però in un altro modo. La rivoluzione non è arrivata e quella società multiculturale che avrebbe dovuto costruire New Babylon si trova oggi tra le discariche delle zone più periferiche delle nostre città e dei nostri pensieri. Il campo dei nomadi di Alba non è stato per i situazionisti un “terreno di gioco e di partecipazione”. L’urbanismo unitario, che lì aveva trovato un campo concreto su cui giocare, non ci ha giocato, non si è messo in campo. Malgrado i proclami per un’arte collettiva da applicare allo spazio urbano, i situazionisti non sono riusciti a trovare un terreno comune dove sperimentare le capacità dei singoli membri: quelle da costruttore di reti di Asger Jorn, abile seduttore e potenziale regista di tante squadre interdisciplinari da mettere in campo; quelle di costruttore di senso di Guy Debord, capace di caricare di significati politici e filosofici gli aspetti che mano a mano emergono dal campo; quelle da costruttore di spazi di Constant capace di tradurre in poesia tridimensionale le qualità dello spazio nomade; quella di costruttore di relazioni di Pinot Gallizio, capace di intessere fili tra la realtà concreta del campo nomadi e il mondo politico e culturale di Alba. Capacità ancora oggi fondamentali per trasformare spazi complessi. L’urbanismo unitario non è sopravvissuto alle espulsioni, alle dimissioni e alle vanità artistiche dei suoi singoli membri. I concetti di antibrevetto e di non autorialità, seppure ben formulati, non sono stati spesi proprio lì dove sarebbero serviti per attivare processi creativi di trasformazione collettiva e partecipata. Oggi, seppur in misura ancora insufficiente, lo scenario sembra mutato. Ci sono amministrazioni che affrontano situazioni difficili e atrofizzate non con le usuali procedure urbanistiche, ma affidandosi alle possibilità dell’arte pubblica e in molti cominciano a ricevere da queste operazioni benefici e ritorno politico. Il mondo culturale con fondazioni, centri d’arte e università, comincia impegnare risorse in questa direzione. Negli studenti inizia a nascere un desiderio di mettersi campo piuttosto che al computer, di partecipare da vicino alle trasformazioni del territorio portando le proprie capacità a servizio della collettività, di rendersi utili a chi ne ha bisogno piuttosto che agli studi professionali dello star-system griffato. Ma c’è bisogno delle persone giuste, che sappiano veramente lanciarsi nella creatività collettiva superando l’autorialità, la firma, il brevetto, che sappiano costruire reti, estrapolare significati, fornire visioni, costruire relazioni e istigare processi trasformativi. I campi nomadi sono i luoghi simbolo delle peggiori realtà urbane in cui da secoli abbiamo relegato l’altro. Sono passati cinquant’anni e siamo sempre lì, sulle rive del Tanaro a domandarci se abbia senso progettare un campo nomade, se abbia senso progettare l’instabile, il transitorio, l’incerto. È chiaro che se non la si affronta in termini culturali, la progettazione di questi spazi rimarrà ai tecnocrati di partito, agli approfittatori o peggio alle questure. Il campo nomadi di Alba continua a essere una scommessa per tutti.


Pellegrinaggio ad Alba, agosto 2005 di Francesco Careri, Armin Linke e Luca Vitone.

Alba, dicembre 1956

Racconto della visita di Constant e Gallizio al campo dei nomadi di Alba, durante un soggiorno presso il Laboratorio del Bauhaus Immaginista.“Gli zingari che si fermavano per qualche tempo nella piccola città piemontese di Alba avevano preso da molti anni l’abitudine di costruire il loro accampamento sotto la tettoia che ospitava una volta alla settimana il mercato del bestiame. Qui accendevano i loro fuochi, attaccavano le loro tende ai pilastri per proteggersi e per isolarsi, improvvisavano ripari con casse e tavole abbandonate dai commercianti. La necessità di ripulire la piazza del mercato dopo tutti i passaggi dei Gitani aveva portato il Comune a vietarne l’accesso. Si erano visti assegnare in compenso un pezzo di terreno erboso su una riva del Tanaro, il piccolo fiume che attraversa la città: un anfratto dei più miserabili. È là che sono andato a trovarli, in compagnia del pittore Pinot Gallizio, il proprietario di questo terreno scabro, fangoso, desolato che gli era stato affidato. Di quello spazio tra le roulotte, che avevano chiuso con tavole e bidoni di benzina, avevano fatto un recinto, una “città dei gitani”. Quel giorno ho concepito il progetto di un accampamento permanente per i gitani di Alba e questo progetto è all’origine della serie di maquettes di New Babylon. Di una New Babylon dove si costruisce sotto una tettoia, con l’aiuto di elementi mobili, una dimora comune; un’abitazione temporanea, rimodellata costantemente; un campo nomade alla scala planetaria”.(in: Constant, New Babylon, Haags Gemeentemuseum, Den Haag, 1974)  Alba, luglio 1957

Pinot Gallizio, dopo aver difeso più volte i nomadi in consiglio comunale, affigge nelle vie di Alba un manifesto dal titolo L’uomo è sempre l’uomo e annuncia l’inizio della “grande battaglia per la sosta degli zingari”. Il manifesto mostra le foto di Gallizio con i nomadi, ora al mercato ora in riva al Tanaro. Con un’inedita ed efficace performance di comunicazione estetica e politica, Gallizio entra in campo con il ruolo di artista pubblico. Ne seguono polemiche sulla stampa locale contraria ad affidare il nuovo campo agli artisti del Bauhaus Immaginista. 

Roma, dicembre 2004

La signorina Giulia Liberti Sebaste, amica di Giors Melanotte, il figlio di Gallizio recentemente scomparso, contatta Osservatorio Nomade a proposito di un imminente sgombero del campo di Alba e di una querelle sul terreno che Gallizio aveva regalato nel 1949. Sembra che il campo sia in riva al fiume e che ci siano gli stessi sinti piemontesi che Constant aveva incontrato nel 1956, forse quel terreno è loro. Organizziamo una spedizione in camper per verificare sul luogo, ma poi tutto si arena. 

Utrecht, 1 agosto 2005

Muore Constant. Sua figlia Martha Nieuwenhuijs ci dà la triste notizia e ne seguono intensi scambi telefonici. Domus accetta la proposta del viaggio ad Alba. È estate e la grande carovana di Osservatorio Nomade non si riesce ad organizzare, intanto partiamo in tre: Francesco Careri, Armin Linke e Luca Vitone. 

Torino-Alba, 29 agosto 2005

ore 15.00: arriviamo alla spicciolata da Martha che abita a Torino nella zona di San Donato. Ci accoglie molto gentilmente e ci mostra vecchi cataloghi e album di famiglia. Sono foto bellissime, a volte con commenti di Constant, didascalie spiritose, piccoli racconti. Apriamo lo scanner e cominciamo a lavorare. Constant appare sempre ridente, festaiolo, ludico; ora in piedi su una sedia; ora vestito da pirata, sempre pronto a far divertire la sua grande famiglia allargata, un esempio di vita liberata condivisa con naturalezza con Asger Jorn, quasi una sperimentazione di New Babylon tra tante mura domestiche. Dagli album vengono fuori le storie. Alba, Albisola, Cosio d’Arroscia. Parigi, la casa che Jorn aveva costruito con un prete operaio, si entrava dal bagno passando accanto alla vasca e al lavandino, e poi seguivano tutte porte scorrevoli, alla Rietveld. Amsterdam, le feste tzigane a casa Constant, dove lui improvvisava con l’amico Jan Kalkman e l’orchestra Kabani, che ancora suona nel ristorante Capitan Zeppo. “È sempre stato un po’ gitano”, dice Martha e Francesco racconta che lui gli aveva detto che in famiglia scorreva sangue nomade, che un avo materno aveva sposato una ragazza manu francese. Martha, quasi a confermare, ci mostra una straordinaria foto di Johannes Theodorus Petrus Cornelissen, il nonno materno di Constant. Sembra la foto di Gallizio con gli orecchini che fa “il re degli zingari”. Partiamo per Alba. 

ore 20.10: siamo in ritardo e ci dirigiamo subito all’accampamento in riva al Tanaro, ci fanno strada l’architetto del futuro campo Sandro Lazier e il suo assistente Paolo Ferrara. Il nostro riferimento è Alessio che ci viene incontro all’ingresso. Veniamo accolti molto cordialmente. Ci sono altoparlanti che diffondono una musica molto alta, più tardi scopriamo che sono i ragazzi che fanno un karaoke. Dopo un rapido giro a piedi ci ritroviamo in una veranda a bere caffè. Armin scatta le foto. Francesco e Luca mostrano i libri con Pinot Gallizio tra i nomadi per vedere se si riconosce qualcuno. In realtà non si capisce molto bene, a volte trovano una nonna, a volte dei lontani cugini, altre volte riconoscono in Gallizio un loro parente… L’anno 1956 sembra appartenere ad altre generazioni. Nessuno ha un diretto ricordo di Pinot. Lo conoscono perché il loro campo si chiama Villaggio Pinot Gallizio e all’ingresso c’era il cartello con la foto con gli orecchini, alcuni credevano che fosse un loro avo importante. È tutto sparito con l’alluvione del ’94 che ha cancellato il campo senza fare vittime, per fortuna. Il fiume è assassino e un anno fa un bambino è annegato. L’acqua è il vero problema, tutti sanno che quella è un’area esondabile e che può sempre arrivare il momento di mettere tutto nei camper e scappare. Ci parlano di Amilcare de Bar, detto Taro, un loro parente scampato da Auschwitz e poi diventato un personaggio pubblico ad Alba fino a rappresentare i sinti piemontesi a Ginevra, era lui il riferimento di Pinot, ora vive a Cuneo. Cerchiamo di spiegare chi siamo, cosa vorremmo fare e soprattutto perché loro siano diventati la più famosa comunità nomade della storia delle avanguardie. Quando capiscono che siamo quelli che dovevano venire in camper per sostare nel loro campo si dimostrano più fiduciosi. Francesco scrive una dedica nel suo libro su Constant e New Babylon e ne fa dono a tutto il campo. Lo ricevono con molta cortesia ma non sembrano particolarmente eccitati all’idea di abitare in quelle immagini colorate, forse troppo oltre ogni idea di ‘casa’ anche per un nomade. Descriviamo il plastico del campo nomadi progettato nel 1957 per loro: un circo sinti, un grande sistema di tettoie mobili sotto cui appendere teli, feltri, pareti mobili e tutto ciò che si può costruire e smontare seguendo i desideri e le necessità del momento. Ancora un bicchiere e andiamo in albergo. 

Alba-Torino, 30 agosto 2005

ore 7.50: Ci ripresentiamo quando il sole comincia ad alzarsi. Il campo si sta svegliando, è tenuto bene, ha una grande strada-piazza centrale che senza soluzione di continuità entra nei soggiorni delle case. Sono famiglie allargate e molto imparentate tra loro, così le frontiere tra le case, come quelle tra spazi pubblici e privati o tra spazi interi ed esterni, sono assolutamente fluide. Dappertutto è pieno di oggetti che sembrano non appartenere a nessuno e che in realtà appartengono a tutti, oggetti pubblici e domestici: lavandini, barbecue, altalene, sedie dondolo, scale. La città è un villaggio-casa. Mentre la casa-villaggio è un soggiorno all’aperto con intorno tettoie multifunzionali che coprono cucine, verande, roulotte, camion, macchine e magazzini, tutto sembra essere contenuto sotto. Sembra di essere in una New Babylon concreta. 

ore 10.10: arrivano i carabinieri, ci controllano i documenti e se ne vanno. Ci spiegano che è una visita quotidiana, c’è una persona agli arresti domiciliari. Ma qui quasi tutti lavorano, fanno i muratori, raccolgono ferro vecchio e la novità è la nascita di alcune cooperative che prendono appalti dal comune per piccoli lavori e la cura dei giardini pubblici. Continuiamo a perderci nel campo e a interagire attraverso le vecchie foto, un efficacissimo strumento di relazione. La signora Jolanda si affaccia in veranda e dice che quei nomadi con Gallizio non sono loro, che lui non c’entra con questo campo, che quelli che lo hanno fatto sono suo padre Orlando de Colombi, insieme a don Modesto Savoiardo e il maestro Ernesto Prunotto. Prima, loro erano dall’altra parte del fiume, oltre la ferrovia, dove adesso c’è la Ferrero e affittavano da un certo Marino. Adesso qui è sicuramente meglio, c’è l’ospedale vicino e c’è la scuola. Ci stupiscono quanti ci dicono che anche loro sono persone, esseri umani che mangiano, vivono e si ammalano. Alcuni vorrebbero traslocare in normali appartamenti piuttosto che trasferirsi vicino al carcere, come gli hanno proposto. Accanto alle infelici ironie ci sono dei problemi reali, ci sono donne e anziani che vanno solo a piedi e laggiù sarebbe tutto irraggiungibile. Potranno andare al carcere, al canile o al cimitero, che bella prospettiva! E se invece ci mettessero vicino all’ospedale? 

ore 11.20: andiamo a Mussotto, il quartiere lì accanto. Don Modesto Savoiardo è in ospedale per un malore, cerchiamo quindi di trovare il maestro, Jolanda ha detto che lui sa tutto, che li ha visti crescere tutti. Il maestro Prunotto vive in un elegante villino, è sui cinquanta ben portati e ci racconta la storia della comunità che ha seguito con grande impegno dalla fine degli anni sessanta, da quando andando a pescare sul fiume era lentamente diventato amico di Orlando, il padre di Jolanda. Ci spiega che il campo di Gallizio in realtà non è questo, che lui aveva dato un terreno sulla riva opposta di dove sono adesso, alla Pontina, dove ora c’è la piscina comunale. Nel 1967 erano 12 famiglie con 10-12 figli a testa e sicuramente stavano nella riva opposta, ma in un tratto più su, di fronte alla fabbrica della Ferrero. Era un pantano. Lui e il parroco sono andati a parlare con i nomadi, hanno scelto il posto, hanno scritto il regolamento interno e hanno fatto costruire docce, bagni, e altri servizi purtroppo distrutti dai nomadi stessi. Una volta entrati al campo hanno avuto la residenza, fatto molto importante per lavorare in regola, per le carte d’identità, per l’assistenza sanitaria. Racconta di quanto è stata difficile la scolarizzazione, che i bambini andava a prenderli lui stesso per portarli a scuola, che il suo sogno era fare una scuola al campo, pomeridiana, aperta anche ai genitori. Adesso le cose vanno meglio, tutti vanno a scuola volentieri, sono invitati alle feste dei compagni, e questo fa superare molte barriere anche ai genitori. Insomma, qui dove sono starebbero anche bene, è stato fatto un percorso di integrazione durato trent’anni, ma il problema è il fiume, e alla prossima piena potrebbe succedere un disastro e tutti lo sanno. Vivere così è una scelta difficile e sono molti quelli che vogliono smettere, soltanto 20 famiglie continuerebbero in un nuovo campo. Secondo il maestro si doveva affrontare il problema con i comuni vicini e trovare una soluzione più generale, ma era istituzionalmente difficile. Ci conferma che dopo una lunga contrattazione il campo andrà vicino alla casa circondariale, che quello è veramente l’unico terreno libero, in pianura e vicino al fiume. 

ore 12.30: ufficio di Sandro Lazier, l’architetto che ha redatto lo studio di fattibilità relativo al collocamento e corredo di un nuovo campo per l’accoglimento delle comunità nomadi. È un uomo affabile, franco e simpatico che conosce bene New Babylon, ma si è trovato a progettarla in soli due mesi e all’interno di regolamenti edilizi e standard regionali. Il progetto recepisce dall’attuale campo le tettoie multifunzionali e lo spazio pubblico del piazzale centrale che forse è troppo separato dalla circolazione sul retro. Le abitazioni sono tutte uguali e si capisce che, forse per difetto di tempo o di attitudine, è mancato un contatto diretto che avrebbe prodotto una differenziazione in base alle famiglie della comunità. Il progetto comprende anche una zona di sosta per i nomadi in transito e una grande installazione di land art che copre la vista del campo per chi entra in città. Ma il vero problema è la sua collocazione: una zona non ancora completamente al riparo da inondazioni e che necessita comunque di grossi lavori per essere messa in sicurezza. Andiamo a vedere. Il terreno è in campagna, in un’area collegata molto male, tra l’autostrada, una discarica e il canile, soprattutto accanto al carcere: il muro del nuovo campo sorgerebbe a pochi metri da una recinzione con tanto di torrette di guardia agli angoli. Una scelta, quella del Comune, davvero infelice. Purtroppo su questi temi le politiche di destra e di sinistra si equivalgono per la loro ipocrisia: la strategia è spostarli fuori città, in posti difficilmente accessibili, lontani dalla vista della gente per bene, vicino ai quartieri più difficili e ai loro simili, cosi si sommano problemi ad altri problemi. E questo trattamento è riservato anche a comunità oramai felicemente insediate da più di vent’anni e che stanno procedendo verso un’integrazione nel rispetto delle diversità. Questa situazione dimostra che né la politica né l’architettura da sole sono oggi in grado di entrare in un campo nomade, come peraltro in molti temi complessi che ci pone la nuova città multiculturale. Non si può che affrontali in termini culturali, con un approccio partecipato e interdisciplinare, su questo gli artisti e gli architetti del Bauhaus Immaginista ci avevano visto giusto. 

ore 17.00: Continuiamo a cercare in diversi luoghi il terreno di Gallizio. Luca vede nella tettoia del mercato nel centro di Alba, dove i sinti piemontesi si riparavano ai tempi di Constant, il luogo dove installerebbe la bandiera Eppur si muove indice di un nomadismo libertario. Rientriamo a Torino. Ci aspetta Francesca Comisso che ha avuto difficoltà a raggiungerci ad Alba. È esperta di Gallizio e ha recentemente lavorato alla pubblicazione degli scritti dell’artista e di molti documenti provenienti dall’archivio Gallizio. Ci dice che ad oggi non ha mai visto né sentito citare documenti che provino dove era il campo di Pinot e che questo dono non era probabilmente mai stato ufficializzato con un atto; se così fosse, i nomadi sarebbero proprietari di un terreno sul fiume, il che magari potrebbe cambiare le loro sorti. Francesca ci mostra, nella sezione del libro dedicata agli zingari, le interrogazioni di Gallizio al Comune in difesa dei nomadi, gli articoli sul giornale Le nostre tôr contrarie a dare l’incarico al Bauhaus Immaginista e una lettera che Constant scrisse a Gallizio nel 1961, quando entrambi erano oramai fuori dall’Internazionale Situazionista. Qui Constant propone di continuare insieme a lavorare al progetto “che sarebbe una prima realizzazione dell’urbanismo unitario”. Fantastichiamo di ricominciare da lì, dal campo dei nomadi di Alba, di salvarli dal carcere attraverso l’urbanismo unitario, di mettere in atto il progetto di Constant e Gallizio, magari non costruendo filologicamente il plastico del ’57, ma riproponendone l’approccio ludico e costruttivo, quella attitudine di Gallizio di “stare in campo”, quella capacità di Constant di “progettare l’improgettabile”. Forse basterebbe alzare il terreno e ripararlo con gli argini, magari coinvolgendo nella costruzione le cooperative recentemente nate nel campo. Si potrebbe costruire “un terreno di gioco e di partecipazione” e insieme al parroco, al maestro e all’architetto, ricostruire il nuovo campo di tettoie, proprio lì dove sono sempre stati, ad Alba, in riva al Tanaro. 

Amsterdam-Alba, 1961

Constant scrive a “l’uomo di Alba”: 

“Mio caro Pinot, grazie mille per la biografia che contiene davverodelle bellissime illustrazioni!Poiché tu lì parli della “città degli zingari”, bisognerebbe veramente considerare le possibilità di realizzazione di questo progetto, sarebbe una prima realizzazione dell’urbanismo unitario. So che presto esporrai ad Essen da Van de Loo. Se ci andrai, vorrei incontrarti al vernissage e ne parleremo insieme. Il mio affetto alla signora e a Giorgio. Con amicizia Constant 

(in: Giorgina Bertolino, Francesca Comisso e Maria Teresa Roberto, Pinot Gallizio. Il laboratorio della scrittura, Charta, Milano, 2005, p. 232. Il testo originale della lettera è in francese) 

2 aprile 2007. Il campo di alba è attualmente sotto processo per abusivismo edilizio e rischia di essere sgomberato prima che il nuovo campo sia costruito

2 Risposte to “constant e il campo nomadi di alba. da “domus” ott. 2005”

  1. wnda penna Says:

    l’uomo è sempre uomo…….Pinot

  2. scommesse sportive Says:

    Scompare un grande

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